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Una Vita da… Multipotenziale.

Smettere la corsa all’oro e guarire le ferite generazionali per comprendere chi siamo e accettare nuovi modi di essere.





Ci sono parole che rimangono, frasi che restano impresse a fuoco nella mente e che si insinuano viscidamente tra le fibre del corpo e le memorie dell'anima. Sono in particolare quelle che ci vengono dette, o che sentiamo, spezzettate qua e là, quando siamo bambini o adolescenti.

Spesso sono erroneamente interpretate o estrapolate dal contesto, o semplicemente vengono assimilate dalla mente perché ci risuonano quasi come familiari, sebbene mai sentite prima.

Eppure sono quelle che ci ripiegano poi, da adulti, su noi stessi, come fogli inutili accartocciati dal fuoco nel camino, e che ci limitano nel pensiero e nell’azione. Diventano abissi, tagli netti nascosti sotto la pelle, ferite infette mai curate, molto spesso mai nemmeno viste, stracci di pensiero sepolti e impolverati che finiscono per avvelenare una parte di noi che neanche noi sappiamo di avere (-o vogliamo saperlo).


Ricordo fin troppo lucidamente una frase che mi ripeteva mia madre, da ragazzina, quando volevo qualcosa o ambivo ad ottenere risultati allora impossibili per me, fossero pure brevi desideri di bambina o grandi sogni di piccola visionaria.
Tu non sei nessuno, devi ancora dimostrare al mondo se vali qualcosa e se ti meriti tutto ciò che hai.

Che lo dicesse per insegnarmi, per dimostrarmi quanto il mondo reale sia complicato, per ridimensionare il mio ego, o per sgridarmi, in realtà, poco importa.

Importa, però, che me lo ricordo ancora adesso quell'eco che mi risuona dentro e sento che quelle parole hanno perforato il mio essere fino all’osso e mi hanno divorato i sogni e le ambizioni, fino a farmi dubitare del mio valore, della mia attitudine, delle mie capacità, persino delle mie aspirazioni, di ciò che una bambina a 7/10 anni può sognare. In realtà non ricordo nemmeno quando sia successo, credo di non poterlo collocare in un preciso momento storico, forse perché è stato detto più volte, o forse perché non ha rilevanza. Che ne avessi 5,10 o 25, quell'eco c'è. Ed era mia mamma a dirlo, quindi, una parte di me, le ha dovuto credere per forza.


Non dico che mia madre abbia sbagliato, non metto in dubbio la sua buona fede di mamma, anzi, forse aveva ragione ad avvisarmi e quello era il suo modo per spronarmi - forse per lei nessuno si era fatto portavoce del peso dell'età adulta, della crudezza del mondo - spesso, però, le loro ferite diventano le nostre, e ciò che ci è trasmesso diventa una catena generazionale di frustrazione e limitazione, tramandata e assorbita attraverso i pensieri nella pancia e poi con le parole nell’infanzia.

Eppure ci ho messo anni per elaborare quella ferita e trovare il modo di rattoppare lo strappo. (Vi posso garantire: è un lavoro infame mettere le mani in questo genere di cose, ci vuole fin troppo tempo a volte e più energia di quanto si possa credere, e, una volta iniziato, non si finisce mai. Eppure, ha la sua ragion d'essere.)


Per anni, fino ad oggi e ancora oltre, ho provato grande insicurezza e non ho mai goduto di molta autostima. Ho cercato ovunque soluzioni alla mia mancanza di ostinatezza per certi obbiettivi come quello della carriera verticale, ho fustigato me stessa per non essere in grado di scegliere un unico percorso. Mi sono ingarbugliata la vita in mille e mille percorsi alternativi per trovarne uno che facesse al caso mio, senza essere mai soddisfatta di nemmeno uno di questi, pienamente. Mi sono avvelenata da sola per cercare una soluzione ad un problema che io stessa ho creato, credendomi sbagliata. Credendo di dover dimostrare. Dimostrare poi cosa, esattamente, non saprei. Di dover diventare “qualcuno”, per non essere più un “nessuno”. "Un Qualcuno che sa fare Qualcosa perché Deve farlo"- si potrebbe riassumere, semplificando, questa filosofia generazionale, tipica dei genitori anni 90/2000, pari pari così com'è scritto, con quelle maiuscole, perché saper fare quel Qualcosa ti rende onorevole e degno del tuo titolo di Qualcuno.


Ecco, io noto una lieve quanto rilevante connessione tra questi macro argomenti: ciò che ci viene detto, queste parole-tatuaggio che ci si imprimono addosso volente o nolente, la filosofia del sacrificio per diventare Qualcuno, la necessità di diventare, di scegliere, di porsi da subito nella condizione di non essere abbastanza, di NON ESSERE finché non si raggiunge uno scopo ben socialmente qualificante, e l'esistenza di un'essenza profonda innata rinnegata, che si scontra con questa corsa all'oro del luccicante sviluppo socio-economico e dell'inghiottimento a piè pari di una serie indicibile di ferite generazionali infangate, e di insegnamenti millenari ignorati e disprezzati, sobbarcati di inutili stereotipi e sostituiti da pretenziosi pseudo-ideali post comunisti.

Insomma, com'è possibile che una bambina possa credere alla mamma che le dice che lei, piccola e ovviamente impotente, non è nessuno perché non ha ancora dimostrato nulla?

Beh, è ovvio che ci creda. Perché è vero. E perché glielo ha detto la mamma.

Ma il problema non è né la mamma, né la bambina, naturalmente.

Poi finalmente ho capito.

Ho capito prevalentemente 2 cose, fondamentali.


1.

Non tutti sono fatti per vivere nella società capitalistica monolitica della carriera unidirezionale. Certo, nessuno dice che sia sbagliato farlo, anzi, Io vi ringrazio, Voi che lo fate, perché mi permettete innanzitutto di non doverlo fare io in prima persona, ma soprattutto di avere degli esempi reali di cosa significhi starci dentro. Semplicemente voglio dire che non siamo tutti inclini a trovare “il lavoro della vita” e costruire qualcosa di socialmente accettabile e utile. Esistono persone, come me a quanto pare, che di questo imprinting socioculturale non se ne fanno un accidente di niente e non è colpa loro. Sono proprio fatti di un’altra materia, hanno un’altra visione, un altro scopo, un altro impasto. Sono persone che non si accontentano di una sola specializzazione, di una sola passione, di un solo hobby e di una sola carriera. Non si accontentano nemmeno di 2 o 3, magari, ma poi non ne prendono nessuna, in realtà, perché non sanno quale scegliere. Sono persone generalmente etichettate “superficiali”, che non riescono a concludere un lavoro o un corso di studi, che già hanno altre 100 idee e altri 1000 nuovi spunti. Non sono persone che riescono a mantenere un lavoro fisso per molto tempo, perché si distraggono facilmente dal percorso e finiscono per interessarsi ad altro. Sono persone la cui carriera non sarà mai lineare, ma spezzettata e variegata in mille modi e mille direzioni opposte. Non chiamateci IGNAVI, quelli che Dante condannava per la loro indolenza e negligenza nel bisogno di scegliere, né opportunisti, perché a volte essere in grado di scegliere significa anche fare la scelta sbagliata e cogliere opportunità che attirano solo in trappola, a seconda del proprio disegno animico.

Chiamateci, piuttosto, persone multipotenziali, cioè che hanno più di un "talento", più di una potenzialità specifica da sviluppare, con una velocissima abilità di apprendimento e deduzione, forte intuito, quindi multifunzionali; tuttavia portatori di "difetti" di programmazione, come la difficoltà a concentrarsi, dei forti up &down di motivazione e di emotività, molto meno focalizzati, dispersivi perché incuriositi da troppo e mai catturati al 100% da qualcosa in particolare, tendono al caos e alla ricerca di una perfezione irrealistica che risulta, poi, nella demoralizzazione e nello sconforto, davanti a piccoli imprevisti e grandi difficoltà. Una “specie” rara, se vogliamo, ma, purtroppo, non protetta, non capìta. Anzi, solitamente incompresa e discriminata. Attenzione - non mi sto autocommiserando, lungi da me, - ho sempre combattuto molto per ciò che volevo e ho lottato con ogni mia forza per ottenere ciò che ho avuto, ho conosciuto la paura e la sofferenza, ho imparato a convivere con i miei demoni e a decidere cosa fosse giusto per me - eppure, mi ritengo parte di questa categoria poco conosciuta perché ad oggi non posso dirmi completa, soddisfatta, del mio percorso professionale, (sì, concentriamoci solo sul fronte professionale, per ora) - non credo che lo sarò mai e non credo di poter decidere oggi (n'è ieri né 10 anni fa ciò che sarei voluta diventare oggi o tra 10 anni) - non posso farlo e non voglio farlo e credo che questo modo di essere, MULTIPOTENZIALE appunto, non solo sia ignorato e sconosciuto ma anche svalutato e mal rappresentato. Eppure, anche qui, non intendo puntare il dito contro nessuno, anzi, il mio è un appello: solitamente l’autonomia e il diritto all’esistenza di una minoranza non è data per grazia divina, tutt’altro; va per prima cosa riconosciuta, compresa e quindi resa visibile a più persone possibili, perché possa essere accettata, inquisita e rivoltata per benino, e quindi, non senza qualche santo sceso dal paradiso, avendo lottato per essa, si acquisisce il diritto a proteggerla.

Non è una pacchia, insomma, ma così va il mondo... pare.


2.

NON SERVE GAREGGIARE. L'altra epifania che mi ha sospinta un passo più in là verso la mia pace. Gareggiare contro chi? Perché? Quanto, per quanto tempo, da quando? Questo è un punto focale, che ho appreso solo più avanti, grazie alla filosofia yoga. Studiando yoga e molte altre discipline e materie affini, olistiche e non, infatti, mi sono accorta che tutto ciò che esiste, semplicemente è. C’è perché serve, è un esempio unico e irripetibile di possibilità espresse in una forma precisa dell’Universo. Questo ci rende tutti utili, tutti unici, tutti irripetibili, tutti “irreplaceable”. Non sostituibili. Ma noi gareggiamo sempre. Gareggiamo con i genitori da piccoli, fin dai primi mesi, contro la madre o il padre, gareggiamo coi fratelli, coi compagni di scuola, con i nostri coetanei, con gli stranieri, con i modelli proposti, con gli altri, con gli adulti, con noi stessi. Allora perché? Perché ci viene insegnato che dobbiamo essere migliori? Perché qui funziona così. Qui per arrivare devi sgomitare e calpestare. Devi automutilarti e violentarti per diventare ciò che devi. È tutto un fuggi fuggi-magna magna. Ne resterà soltanto uno. E poveraccio quello che arriva là che si troverà solo, pieno di soldi e tasse da pagare o crimini da perdonarsi. Credo che il problema non sia essere migliori, il problema è essere veri. Autentici e capaci di sentire ed estrarre da noi stessi la nostra realtà, la nostra verità. Capaci di smettere di dirci bugie e riascoltare le voci-eco nella testa che ci dicono cosa fare e chi essere. Capaci di liberarci e aiutarci a mollare. Non si tratta di ripudiare le radici, ma comprendere dove esse siano marce o semplicemente non funzionali alla nostra crescita. Si tratta di costruire nuovi modelli, basati su integrità e onestà istintiva, qualcosa che ci renda più forti nelle debolezze, più radicati nelle incertezze, più abili nelle arti invisibili, meno ossessionati dal materialmente possibile.


Io credo in un futuro così, in cui ognuno senta difeso il diritto ad essere ciò che è senza dover diventare nulla che non vuole o nulla che non abbia ancora idea di voler essere, in cui MONOPOTENZIALI E MULTIPOTENZIALI abbiano spazio per esplorare e crescere, in cui le ferite delle parole-tatuaggio e quelle generazionali che ci portiamo dentro nel DNA siano riconosciute tanto quanto quelle visibili che sanguinano e vengano trattate con la stessa cura, ricerca e rispetto, perché ogni persona è fatta di mente e di anima tanto quanto di corpo e curare solo quest'ultimo significa negligenza di 2/3 di noi stessi, ma la strada è lunga e il lavoro da fare è tanto.
Vuoi aiutarmi? Inizia da te. Apri gli occhi alla tua verità, inizia a essere più sincer* con te stess*. Abbi coraggio. Non aver paura di sbagliare, perdere, inciampare, perfino di morire.
Solo chi rompe le regole scrive la storia.
E noi abbiamo bisogno di scrivere una storia completamente nuova, nuda, che nasca da dentro.
Siamo qui per spezzare il cerchio.

“Il processo di liberazione è SQUISITAMENTE INDIVIDUALE e nessun essere, sistema o società che sia, potrà mai liberarti, né dentro né fuori... non funziona così, questo è il samsara.
Nella Via si usa dire: "Vivi nel mondo, ma non appartenere al mondo".” - Roberto Potocniak

Grazie,

J.



P.s. Leonardo Da Vinci è un esempio lampante di multipotenziale, il che fa ben sperare nel risvolto vantaggioso che questa categoria possa apportare, dandole il giusto spazio. ;-)

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